di Fabio Mencocco e Tina Cioffo– Il 3 febbraio lo hanno trovato morto in una baracca della masseria nella quale lavorava. Mallaya Singh Sarbject, aveva solo 32 anni. La sua morte, secondo l’autopsia, è avvenuta per cause naturali ma i proprietari dell’azienda sono indagati perché lo facevano lavorare in nero e lo tenevano in condizioni igieniche sanitarie pessime.
Si chiamava Mallaya Singh Sarbject aveva 32 anni e come altri suoi tanti connazionali reggono con il loro lavoro l’intera produzione di latte da bufala della provincia di Caserta. Per gli allevatori originari di San Cipriano D’Aversa, titolari dell’azienda bufalina a Cancello Arnone era solo «l’indiano». Lavorava dall’alba fino al tramonto, senza sosta e senza riposo. Il 3 febbraio è stato trovato morto nell’alloggio dell’azienda. Sui fatti indagano i carabinieri di Cancello Arnone.
«È da tempo – denuncia Tammaro Della Corte della segreteria provinciale della Flai Cgil Caserta –che abbiamo sollevato la problematica sulle condizioni di vita e lavorativa alla quale sono sottoposti tanti lavoratori delle aziende bufaline del territorio. Purtroppo questa morte non fa altro che rimarcare la drammaticità di questa vertenza; orari di lavoro massacranti, lavoro nero e sotto salario sono negatività che macchiano un settore che produce un prodotto d’eccellenza di questa provincia» . E poi l’affondo «ci auguriamo che gli organi predisposti facciano seguito all’allarme da noi lanciato per ridare dignità a quei lavoratori quasi invisibili, le cui condizioni sono sconosciute a molti».
E’ nelle aziende bufaline che viene infatti, prodotto il latte che serve poi alla produzione della mozzarella che arriva sulle nostre tavole ma il lavoro che c’è dietro, rasenta la schiavitù. In alcuni allevamenti bufalini di Castelvolturno, Villa Literno, Grazzanise, Santa Maria La Fossa e Cancello ed Arnone accade qualcosa che non ha niente a che a vedere nemmeno con la dignità del lavoro. Coloro che si occupano delle bufale, sono per la stragrande maggioranza dei casi indiani di religione sikh, provenienti dalla regione nordoccidentale del Punjab. Lavorano per 16 ore al giorno e senza alcuna giornata di riposo.
La fatica è oltre i limiti, se si tiene conto che per ogni chilo di mozzarella sono necessari quattro litri e mezzo di latte e che dalla mungitura di una bufala se ne ottengono dodici litri al giorno. Non solo, poi c’è da governare le bestie, dare da mangiare, tenere il ritmo dell’animale. Alcuni hanno un contratto che salva il titolare dell’azienda da un eventuale controllo ma quella busta paga al bracciante indiano ne arriva meno della metà. C’è il contratto ma la busta paga è falsa. La maggior parte viene trattenuta dal ‘padrone’ dell’azienda che non passa né l’assegno familiare né un minimo di assistenza medica, dovuta per legge. Ma la legge, evidentemente non vale per tutti
Quello di Cancello Arnone non è il solo ed unico caso. A Castel Volturno una famiglia vive in una baracca di fortuna ricavata all’interno dell’azienda. «In una stanza viviamo in tre, io, mia moglie e mio figlio di 14 anni. Ci riscaldiamo con una stufa a gas e non abbiamo la corrente elettrica. Mio figlio che studia a Castel Volturno è costretto ad alzarsi molto presto. Vorrei dargli di più ma non dipende dalla quantità delle mie ore di lavoro», spiega il padre che lavora da mattina a sera. Era partito da solo poi raggiunto dalla moglie. Avevano sperato in una vita completamente diversa. Ma la realtà con loro è stata crudele.
«C’è stato chi non ce l’ha fatta ed il padrone lo ha abbandonato come un sacco di patate. Non si è interessato della sua sepoltura e tantomeno di avvisare i suoi familiari o le autorità», racconta un altro indiano che la lingua italiana la parla discretamente ed è la ragione per la quale altri indiani si rivolgono a lui quando c’è da avanzare qualche richiesta o chiedere l’aiuto dei sindacati. Il Casertano è la terra della mozzarella e dell’agricoltura fiorente ma dalla fine degli anni ’80 è anche la terra del caporalato etnico.
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