Alessandra Tommasino
La produzione di finto compost non era solo un fatto che riguardava la Campania, dal Lazio al Veneto la storia si ripete
Quell’ammendante pieno di metalli pesanti che conteneva gli scarti dei cicli di lavorazione industriale prodotto nell’impianto dei fratelli Roma di Trentola – Ducenta, se lo ricordano in tanti. Finì al centro di un’inchiesta giudiziaria che fece emergere la regia del clan dei Casalesi in un articolato sistema di traffico e gestione illecita di rifiuti pericolosi.
Un caso clamoroso che portò la Campania alla ribalta della cronaca nazionale, spesso con il risultato del dito puntato contro, da parte di cittadini del Nord pronti ad accusare le popolazioni del Sud di omertà e disimpegno civile. Solo con il tempo, la verità sta emergendo e si sta man mano comprendendo che il reato ambientale è innanzitutto un reato d’impresa che non riguarda e non ha mai riguardato solo limitate e specifiche aree del territorio nazionale.
La storia degli ultimi anni ha insegnato che il traffico e la gestione illecita dei rifiuti non sono mai stati solo un’esclusiva campana. Si è parlato della Campania perchè la presenza del clan dei Casalesi ha “costretto” i cittadini ad interrogarsi per primi ed è forse proprio dalla terra violentata da anni di predominio criminale, che si è alzato il primo vento di consapevolezza, il primo grido di dolore che pian piano sta contaminando anche altre aree del Paese.
I cittadini diventano sempre più consapevoli e spesso si deve a loro l’input per azioni tese a colpire chi inquina. Lo testimonia l’operazione congiunta di polizia e carabinieri scattata oggi nel Lazio, un’inchiesta coordinata dalla Dda di Roma che ha coinvolto 23 persone.
L’attività di indagine è partita nel 2014 proprio alla luce di una serie di esposti presentati da cittadini del comune di Pontinia che lamentavano lo sversamento di rifiuti non trattati in maniera corretta.
Gli accertamenti, condotti dalla polizia Stradale di Aprilia e dal Nucleo investigativo di polizia ambientale forestale-Nipaaf, del Gruppo carabinieri di Latina, hanno permesso di appurare che il materiale prodotto da una azienda specializzata non poteva qualificarsi come compost ma che in ogni caso lo stesso veniva smaltito in terreni agricoli. Gli inquirenti hanno spiegato che il danno ambientale è “enorme”. “Nei terreni in cui è stato interrato il finto compost sono piantati anche olivi e granturco e sono attigui ad altre piantagioni: il rischio che tramite le falde acquifere questo materiale possa aver inquinato le coltivazioni c’è ed è reale”, hanno affermato gli investigatori.
Solo qualche giorno fa, è stato registrato lo scandaloso caso del Veneto con l’azienda di produzione di compost ( sulla cui qualità ci sono molti dubbi) della società Sesa spa. Lo spin doctor della sottosegretaria all’Ambiente della Lega di Salvini, Vannia Gava, Fabrizio Ghedin, addetto stampa dell’azienda creata da un imprenditore finito anni fa in un’inchiesta per ‘ndrangheta, ha proposto alla direzione del giornale un contratto di pubblicità per 300 mila euro, in cambio della possibilità di visionare l’inchiesta prima dell’uscita.
Dopo lo scandalo, Ghedin ha rinunciato all’incarico ministeriale e Gava, ormai nell’occhio del ciclone, ha accettato immediatamente le dimissioni.
La Sesa spa raccoglie gran parte dell’umido non solo dalla provincia ma anche da molte altre parti di Italia, specie dalla Campania ( l’assenza di impianti di compostaggio favorisce interessi criminali) e lo porta nell’ impianto di compostaggio di Ospedaletto Euganeo, dove diventa compost, fertilizzante che viene versato nei campi messi a disposizione da una buona parte di contadini. “Questo compost sarebbe, tuttavia, al di fuori di ogni specifica di legge, in quanto, come documentato da Fanpage sia visivamente sia con testimonianze ed analisi di laboratorio, conterrebbe frazioni consistenti di plastica, rame, zinco, idrocarburi ecc, tutto altamente inquinante“, denuncia il già procuratore di Civitavecchia Gianfranco Amendola sul blog sul Fatto Quotidiano.
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