La lettera della procedura di infrazione per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia arriverà il 19 giugno: sarà tutto in mano a Bruxelles
Per la premier Giorgia Meloni un “cambiamento in Europa è possibile”, come ribadito dal palco della convention di Vox. Ha toccato temi a lei cari, come il no alle teorie gender e alla maternità surrogata, difendendo la famiglia.
In precedenza, la premier Meloni ha accolto Chico Forti al suo arrivo in Italia. Forti, condannato all’ergastolo negli Stati Uniti per l’omicidio di un ragazzo, è stato ricevuto con foto e sorrisi a Pratica di Mare.
Fino alle ore 23:00 del 9 giugno, quando si chiuderanno le urne delle elezioni europee, Giorgia Meloni sembra avere un solo imperativo: evitare di parlare del ritorno del Patto di Stabilità e della lettera in arrivo da Bruxelles.
Per non interferire con la campagna elettorale, la Commissione ha rinviato le comunicazioni ai Paesi che non hanno rispettato i parametri del Patto di Stabilità. Tra gli Stati membri interessati c’è anche l’Italia, come ammesso dal ministro Giancarlo Giorgetti: “è scontato”.
Il prossimo 19 giugno così sarà ufficialmente aperta la procedura di infrazione per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia, anche se le raccomandazioni formali dovrebbero arrivare soltanto in autunno.
Le tempistiche però non andranno a cambiare quello che sarà il destino dell’Italia: per i prossimi sette anni sarà Bruxelles sostanzialmente a decidere la nostra politica economica, alla faccia del sovranismo tanto caro a Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Dallo scorso primo gennaio nell’Unione europea è tornato in vigore il Patto di Stabilità in precedenza sospeso causa Covid.
Il ritorno però è avvenuto con una versione riformata dell’accordo definito da Giorgetti al momento del varo come “un compromesso, un passo in avanti rispetto alle regole di bilancio che sarebbero entrate in vigore a partire dal prossimo anno”.
Il nuovo Patto di Stabilità prevede che i Paesi con un debito eccessivo saranno tenuti a ridurlo in media dell’1% all’anno se il loro debito è superiore al 90% del Pil, e dello 0,5% all’anno in media se è tra il 60% e il 90%.
Se il disavanzo di un Paese è superiore al 3% del PIL, dovrebbe essere ridotto durante i periodi di crescita per raggiungere l’1,5% e creare una riserva di spesa per periodo con condizioni economiche difficili.
Per l’Italia che non ha rispettato i due parametri questo significa dover scegliere tra un piano di riduzione del debito di 4 anni o uno di 7 anni: nel primo caso stando ai calcoli del Ces il taglio annuale alla spesa pubblica sarebbe di 25,4 miliardi, nel secondo invece la sforbiciata sarebbe da 13,5 miliardi.
Con ogni probabilità l’Italia opterà per il taglio di 13,5 miliardi l’anno per i prossimi sette anni, per una sorta di “Troika” che non solo vigilerà sull’operato del nuovo governo, ma presenterà una “ traiettoria di riferimento per l’andamento della spesa netta agli Stati membri in cui il debito pubblico supera il 60% del prodotto interno lordo (Pil) o in cui il disavanzo pubblico supera il 3% del Pil” come nel nostro caso.
Sarà così Bruxelles a “decidere quanti soldi andranno alla sanità, all’istruzione, alla transizione ecologica, mentre un occhio di riguardo nei conteggi sarà riservato per tutti gli investimenti che riguardano il bilancio della Difesa e le spese militari” come ha scritto il Manifesto.
Nella prossima legge di Bilancio inoltre ci sarà anche la grana delle misure in scadenza a fine anno – come il taglio al cuneo fiscale e il primo abbozzo di riforma fiscale – e che sono da rifinanziare.
In totale sono 18 miliardi che il governo non potrà più racimolare ricorrendo al debito, con La Stampa che ha parlato di “un buco da 15-16 miliardi di euro nei conti pubblici italiani da riempire con la prossima manovra”.
Giusto per capire quanto sia in salita la strada, nei giorni scorsi il governo ha venduto azioni di Eni pari al 2,8% del capitale della società incassando 1,4 miliardi di euro, meno di un decimo rispetto a quello che sarebbe il buco di bilancio.
Tagli drastici alla spesa pubblica, stipendi più bassi e tasse più alte, in uno scenario del genere appare chiaro perché Giorgia Meloni preferisca parlare di teoria gender invece che del Patto di Stabilità oppure dell’imminente procedura di infrazione per l?Italia, tanto la lettera arriverà dieci giorni dopo le elezioni europee.
A meno di due mesi dalle elezioni europee, i partiti della destra italiana si sono astenuti dal voto sul nuovo patto di stabilità e crescita al Parlamento di Strasburgo.
Tuttavia, il governo ha approvato lo stesso patto a Lussemburgo durante il Consiglio agricoltura. Un esito scontato, visto che l’Ecofin dei ministri dell’economia aveva già dato il via libera.
Questa doppia mossa permette ai partiti di destra di criticare l’Europa per raccogliere voti, mentre il governo di Giorgia Meloni ha dovuto accettare un documento che metterà in difficoltà il paese nei prossimi anni.
Nonostante la contraddizione, Meloni continuerà a promettere che la prossima Commissione Ue sarà più favorevole all’Italia, chiedendo di “votare Giorgia” nella speranza che diventi influente nei nuovi equilibri politici. Tuttavia, questa scommessa non risolverà i problemi economici del paese.
Al di là dei retroscena, sul tavolo resta una possibile procedura di infrazione della Commissione Europea, che potrebbe essere decisa a partire dal 19 giugno, ovviamente dopo le elezioni.
Anche a Bruxelles, infatti, c’è chi, come la presidente della Commissione Ue von der Leyen, spera di essere rieletta e cerca di evitare misure impopolari.
La procedura per deficit eccessivo, che si attesta al 7,6% del PIL nel 2023, costerà almeno 10 miliardi di euro, probabilmente impattando sulla prossima legge di bilancio, attualmente vaga.
È noto che il governo avrà bisogno di almeno 20 miliardi di euro per mantenere le sue promesse, a partire dal taglio del cuneo fiscale.
Con l’entrata in vigore del nuovo patto di stabilità nel 2025, le cose si complicheranno ulteriormente: la crescita economica sarà limitata e gli investimenti insufficienti.
Il nuovo patto prevede solo una minima parte di investimenti, inadeguati rispetto alle priorità della doppia transizione verde e digitale, oltre alle spese per la difesa in un clima bellicoso.
Il problema principale è che, secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio italiano (Upb), le regole UE potrebbero richiedere una correzione del 0,5-0,6% del PIL all’anno tra il 2025 e il 2031, pari a 10-12 miliardi di euro.
Il governo Meloni dovrà preparare, tra giugno e settembre, un piano strutturale di bilancio nazionale pluriennale che includa l’impegno a ridurre debito e deficit, gli investimenti e le famose “riforme”.
Questo significa che, come per tutti i paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 90% (l’Italia è vicino al 140%), è previsto un taglio minimo dell’1% ogni anno, implicando privatizzazioni e disarticolazione del welfare.
Inoltre, Meloni e il suo governo dovranno creare un “cuscinetto” pari all’1,5% del PIL una volta scesi sotto il 3% del deficit. Quest’anno il deficit dovrebbe essere al 4,3%. Per rispettare tali obiettivi gravosi, il governo potrà chiedere proroghe fino a sette anni.
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