di Tina Cioffo Cosa c’entra il comune di Brescello con Milano e cosa c’entra Ostia con Castel Volturno? Sono posti lontani gli uni dagli altri eppure fra tutti i Comuni c’è un filo conduttore.
A Brescello, paese dell’Emilia Romagna, la regione delle cooperative sociali e storicamente definita di sinistra, patria felice anche dell’Anpi, si è infiltrata la ndrangheta senza che nessuno dicesse qualcosa o lanciasse l’allarme. Non lo ha fatto il maresciallo dei carabinieri e nemmeno il prete che dal pulpito continuava a ripetere che di mafioso a Brescello non c’era nulla eppure per l’elezione del sindaco si festeggiò a Cutro, nel crotonese, perché secondo la dda di Bologna quella era stata una vittoria della ndrangheta ed in particolar modo della ‘ndrina Grande Aracri. Marcello Coffrini, sindaco di Brescello definì il boss della ‘ndrangheta Francesco Grande Aracri “Un uomo gentilissimo, tranquillo, composto, educato e che ha sempre vissuto a basso livello”.
Nessuno però sembrava sapere, nessuno si era accorto di nulla fino all’arrivo di un prefetto, donna e della Sicilia, Antonella De Miro che colse immediatamente i segnali. Nel comune della provincia di Reggio Emilia, non si era mai organizzata una marcia antimafia, dove nelle scuole mai si era parlato del bisogno di ribellione scegliendo piuttosto il più comodo commento sulla Costituzione. Aneddoti che potrebbero essere raccontati anche per altri Comuni, non Emiliani ma in provincia di Caserta, nell’entroterra dell’agroaversano che per oltre un decennio è stata la roccaforte del gruppo camorristico di Michele Zagaria, capo clan dei Casalesi con interessi proprio in Emilia Romagna. Nel 2018, il 19 marzo giorno del ricordo di don Giuseppe Diana ucciso dalla camorra nel 1994 a pochi passi dall’altare, a scuola si decise di fare un incontro sulla dieta mediterranea. Una scelta autonoma e di per sé legittima ma sicuramente discutibile. Come a dire, la legalità la facciamo ma a modo nostro.
I nodi di Brescello poi però sono venuti al pettine così come raccontano Nando Dalla Chiesa e Federica Cabras nel libro inchiesta “Rosso Mafia. La ndrangheta a Reggio Emilia” presentato a Trame Festival di Lamezia Terme con il giornalista Michele Albanese. Un festival dedicato alla cultura che non teme di parlare di argomenti scomodi e di mettere in collegamento territori di Italia studiando la diffusione delle mafie e della resistenza civile ma anche delle istituzioni. La politica deve avere davvero quegli anticorpi necessari e formare la classe dirigente in grado di reggere la prova della corruzione mafiosa. Per contrastare la mafia, il quieto vivere è da scartare.
A Milano, la città della grande economia che non ha ancora capito quanto l’infiltrazione mafiosa la stia divorando. Bisogna smetterla di pensare che i mafiosi vadano a Milano solo per investire in Borsa, se così fosse, lo potrebbero fare da casa propria e con un computer. A Milano la ndrangheta sta piegando le reni della civiltà. E allora a Brescello come a Milano, la resistenza civile è molto lontana dall’essere vero sistema immunitario. Al Sud i territori sono devastati ma al Nord l’incapacità di reazione, spaventa.
C’entra eccome. C’entra per un errore di valutazione in entrambi i Comuni che guarda caso sono tutti e due bagnati dal mare. A Castel Volturno, in provincia di Caserta, in Campana, la mafia nigeriana è stata a lungo sottovalutata guardando all’uomo nero come al singolo spacciatore e accusandolo per il solo fatto di avere la pelle di un colore diverso dal bianco. Dà fastidio l’ambulante ed innervosisce il lavoratore stagionale ma agli stessi che la mattina gridano” fuori dall’Italia, questo è il nostro paese” o “prima gli italiani”, non disturba poi che la mafia nigeriana gli procuri droga e prostitute. E’ da questi due grossi rami alimentati dal vizio dei bianchi, duri e puri, che la mafia nigeriana percepisce maggiori introiti. E così come descritto nel libro di Leonardo Palmisano “Ascia nera. La brutale intelligenza della mafia nigeriana”, commentato a Lamezia Terme con i giornalisti Sergio Nazzaro e Francesco D’Ayala, quel tipo di organizzazione è già internazionale e già capillare.
Il nero che viene mandato via o bloccato in mare fuori al porto è il diversivo che fa comodo prima di tutto all’organizzazione criminale, che continua indisturbata a fare i propri affari. A San Severo, nel foggiano in Puglia, il sistema criminale ha già sostituito il clan dei Casalesi con i nigeriani. Bologna è oramai una delle piazze di spaccio più attenzionate. La mafia nigeriana, seconda più potente al mondo è quella che potrebbe essere definita mafia capitalista: l’interesse è solo fare soldi ovunque e con qualunque mezzo. E mentre l’Italia si gioca a fare i razzisti, il porto di Bari, per esempio è diventato una vera e propria piattaforma logistica. Ad Ostia i Casamonica ritenuti fino al 2015 solo come dei cavallari, come dei bulli o al massimo dei folli, sono invece una mafia autoctona che con l’arma dell’usura indotta e della violenza studiata hanno costruito un arcipelago di poteri infiltrati nelle istituzioni, nella Roma bene e nei ‘rispettabili’ circoli del divertimento. “E così – secondo il giornalista Nello Trocchia, autore di un libro proprio sui Casamonica- viaggiando in un mondo parallelo, il clan ha conquistato Roma”. Roma, la capitale del Paese che sceglie quasi come una regola non scritta, il quieto vivere piuttosto che la faticosa e sacrificata ribellione che comincia dal prendere atto e poi con la denuncia. La valutazione errata ha dato il tempo di crescere sia alla mafia nigeriana e sia ai Casamonica. Sono stati sottovalutati per anni hanno intanto, affilato armi e rapporti.
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