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Coronavirus, Parla medico di Aversa a Vercelli: “C’è da sperare ma bisogna fare più tamponi”

Coronavirus nei territori più colpiti. Marcello Zago, medico di Aversa a Vercelli: “C’è da sperare ma bisogna fare più tamponi”. Situazione complessa con turni massacranti.

E’ bastato un accenno di controtendenza al contagio per farci ben sperare. Guardiamo i numeri con il desiderio che ci parlino di un presto ritorno alla normalità e soprattutto della fine della sofferenza per tanti ammalati di Coronavirus che stanno lottando tra la vita e la morte. Una battaglia complicata che vede a loro fianco gli ‘angeli dal camice bianco’. Le immagini che arrivano dalle zone più colpite dovranno poi essere elaborate, per il momento le archiviamo come cronaca di guerra e dunque necessarie a seguire con tensione la linea ascendente o discendente del virus invisibile che sta cambiando il mondo. I mezzi militari arrivati a Bergamo e Brescia per trasportare i morti al cimitero ritorneranno alla mente quando verrà il tempo delle analisi e dei bilanci ragionati. I medici sono intanto stremati ma continuano spinti da una forza che si autorinnova, niente di soprannaturale anzi decisamente umana perché dettata dall’istinto di sopravvivenza. Marcello Zago è uno degli ‘angeli con il camice bianco’,uno dei tanti ad essere “emigrato” al nord, in Piemonte, pur di realizzare il sogno di diventare chirurgo. Viene da Aversa nel Casertano e si trova in trincea insieme ad altri colleghi in servizio presso l’Asl di Vercelli, nel presidio ospedaliero di Borgosesia, oggi a fare quello per cui non è nemmeno specializzato. Oltre ai turni del proprio reparto, ormai si precettano tutti i medici ospedalieri per coprire turni di Pronto soccorso e per cominciare l’assistenza 24 ore su 24, nei reparti CoViD dedicati. I turni sono diventati massacranti e, oltre ad essere ormai ampiamente fuori normativa, non si ha più nemmeno il tempo di riprendere fiato.

Ma quale è la situazione?

Da noi sono finiti già da un po’ i posti letto, stiamo trasformando reparti ed ospedali in strutture specializzate verso la malattia, contando sulla collaborazione tra colleghi che mai prima d’ora si era fatta sentire in modo così massiccio e senza soluzione di continuità. Siamo arrivati però al punto di dover scegliere chi salvare, fare quel gesto estremo che ti insegnano sui libri, basandoti sulla statistica e sulla probabilità di sopravvivenza.

L’emergenza è evidente ma si parla anche dei primi studi, è vero?

“Particolare risonanza ha creato lo studio epidemiologico di Vo’ e, in particolare, le considerazioni del Professor Romagnani. Infatti lì è stato deciso di fare tampone a tutti e si è visto che gli asintomatici sono parte attiva nella diffusione dell’infezione, per di più la loro presenza nelle vicinanze dei pazienti colpiti sembra complicarne il decorso, facendo peggiorare la loro sintomatologia (probabilmente per aumento della carica virale).

E allora, cosa si può fare?

Queste considerazioni aprono la porta ad un’azione completamente diversa da quella messa in atto e cioè di passare dalla barriera sanitaria nei presidi ospedalieri alla lotta sul territorio, nell’ottica della ricerca degli asintomatici. Fermo restando che sarebbe, a mio avviso, importante partire dagli operatori sanitari, altrimenti correremmo il rischio di preformare delle falle nell’attuale barriera che abbiamo costruito intorno all’infezione”.

Oggi però questa indicazione non viene, almeno per ora, messa in atto.

Ad eccezione della regione Veneto, che ha deciso subito di applicarla, e da altre realtà che hanno deciso in un secondo tempo di invertire la rotta. La scelta non è di difficile applicazione, poiché i tamponi costano 30 euro l’uno, ma è estremamente complessa perché è legata essenzialmente alla paura di depauperare ancor di più la “barriera”. Pensate infatti che, se risultasse positivo il tampone su solo un quinto del personale crollerebbe l’attuale precario equilibrio sanitario. Invece per noi, di fatto, non esiste più la quarantena e, questo, alla luce dei risultati emersi proprio dai dati veneti, sembra una follia.

La risposta alla richiesta di medici volontari nel frattempo è stata eccezionale e anche l’aiuto da altri Paesi come la Russia e Cuba sembrano rincuorare.

Siamo venuti a contatto con questa infezione in un momento molto difficile per la sanità italiana. Numero chiuso, accesso limitato alle specializzazioni e la grossa quota di pensionamenti hanno indebolito il sistema, portando alla richiesta notevole di neospecialisti degli ultimi tempi. Tant’è che ormai ovunque, ai concorsi, hanno accesso anche gli specializzandi all’ultimo anno, per evitare di avere concorsi vacanti e per ottenere una sorta di prelazione sulle future assunzioni.

Tina Cioffo

redazione

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