Coronavirus, autotrasportatori a rischio contagio senza sicurezza né servizi. La testimonianza di un camionista: “Fermiamo tutto. Possiamo ammalarci ed infettare. Ho chiesto tampone ma non me lo hanno concesso”.
I numeri del contagio Coronavirus continuano a crescere e già molte coraggiose disposizioni sono state assunte dal Governo italiano ma forse altre dovrebbero essere decretate a stretto giro. La circolazione e la distribuzione delle merci di ogni genere e natura nonostante la criticità del momento è ancora garantita, chiedendo agli autotrasportatori e ai corrieri di non fermare il Paese. Eppure si tratta di lavoratori altamente esposti al contagio: attraversano le città italiane quotidianamente, andando e tornando dalle aree epicentro senza dispositivi di sicurezza. Le aziende raccomandano loro di non entrare in contatto con i magazzinieri e di restare in cabina. “A tutto il personale è severamente vietato sostare nel piazzale ed entrare negli uffici”, è scritto negli avvisi. Guidano per ore e gli è stata chiesta una collaborazione straordinaria ma non sono tutelati in nessun modo. Gli autogrill sono per la maggior parte chiusi e quelli che servivano pasti fino a quindici giorni fa, ora li respingono. Il cartello dice semplicemente “Non si servono pasti agli autisti”, e il discorso è chiuso. Messi alla porta anzi lontano dall’ingresso e senza altra scelta. La produzione grazie ai camionisti sta andando avanti. Sono sovraesposti ma anche assolutamente discriminati e hanno paura per se stessi e per le loro famiglie. L’essenziale servizio che questi lavoratori fanno, è ora più che mai evidente.
La testimonianza di un autotrasportatore che passa settimane intere in viaggio, su e giù per il Paese, è illuminante e preoccupante allo stesso tempo. “Non possiamo scendere dai camion, non ci è consentito lavarci, prendere un caffè né mangiare. Non abbiamo mascherine. La colpa non è dei nostri datori di lavoro, visto che anche loro ne sono privi. La situazione però sta diventando insostenibile”, denuncia un trasportatore tornato da Brescia in provincia Caserta solo due giorni fa. “Ho il raffreddore da giorni e probabilmente è un malanno banale ma quando sono rientrato ho chiamato al medico chiedendo la possibilità di fare il tampone faringeo. L’Italia in questo momento è tutta zona rossa ma il rischio al quale siamo sottoposti in questa difficile situazione è molto alto. Se nei 14 giorni di quarantena nel frattempo infetto altri della mia famiglia, cosa succederà?”, continua l’uomo, padre di due figli. Trasporta ferro e piastrelle, beni che non sono certamente di prima necessità. “Ho bisogno di lavorare ma sono altrettanto cosciente che i miei viaggi in questo momento non sono necessari e allora sarebbe meglio chiudere le aziende che non si occupano di farmaci e di agroalimentare”, dice l’uomo, al quale per ovvi motivi garantiamo l’anonimato. Il suo è un suggerimento sensato.
Non ha senso continuare a produrre materiali che in questo momento non possono essere venduti e che non dovrebbero neppure essere impiegati, visto che in un normale cantiere è assai complicato garantire la distanza di sicurezza e non entrare in contatto con i colleghi o con gli attrezzi da lavoro, usati anche da altri. Quando il rischio contagio non ci sarà più, ci ricorderemo con ammirazione del sacrificio di medici, infermieri e sanitari tutti. Ci racconteremo della nostra sacrificata libertà per una normalità messa in modalità stand by. Ci saranno analisi e verifiche di ogni tipo, da quelle politiche a quelle economiche e sociali. Ma chissà se ringrazieremo abbastanza questi lavoratori silenziosi che ci assicurano di avere ogni bene e prodotto a portata di mano. L’emergenza presto finirà, almeno è questo quello che auguriamo, ma senza solidarietà sarà complicato tornare ad essere normali.
Tina Cioffo
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