di Tina Cioffo- Casa di Alice non deve chiudere, è l’appello accorato che Renato Natale, in qualità di presidente dell’associazione Jerry Essan Masslo ha rivolto al mondo dell’antimafia. Intanto l’immigrazione resta un problema irrisolto.
Dimenticare è impossibile e ricordare è un impegno quotidiano per evitare altre morti, altro razzismo, altra crudeltà. Ad agosto, dall’uccisione di Jerry Essan Masslo saranno trascorsi 30 anni. Era la notte tra il 24 ed il 25 agosto del 1989 e accadde a Villa Literno. Dopo un paio di mesi da quell’assassinio, si è sempre detto per rapina, un gruppo di medici e volontari impressionati da quell’evento così violento decise di costituire un’associazione e di dedicarla proprio a Masslo, che dopo una giornata di duro lavoro nei campi a raccogliere i pomodori, venne ammazzato con tre colpi di pistola al petto, da un gruppo di rapinatori a viso coperto. Entrarono nel ghetto di Villa Literno e con armi e spranghe. L’assenza di strutture di accoglienza obbligò i migranti ad organizzarsi in un insediamento intorno ad un casolare diroccato che arrivò ad ospitare fino a 2500 persone. Il lavoro poteva durare anche 15 ore al giorno e veniva pagato ottocento o mille lire a cassetta da 25 kg di prodotto. Oggi, a 30 anni di distanza, il pagamento è ancora stabilito dalla quantità dei cassoni che riesci a riempire. Per ogni cassone, di 300 chili, il guadagno è di soli quattro euro.
Fa caldo e tra pochi giorni, le campagne cominceranno ad essere affollate di braccianti che lavorano la terra, già prima dell’alba. Braccianti che sono per la maggior parte immigrati ai quali gli agricoltori danno pochi euro alla giornata ed in verità pochi ne restano anche per loro stessi, vista la crisi del settore ed i costi sempre maggiori per la lavorazione. Tempi che ricorrono come un appuntamento fisso ogni anno e sembrano davvero poche le novità rispetto a quel passato nemmeno troppo lontano. Non è novità, l’arrivo dei braccianti che ancora non possono contare su un normale processo di integrazione. Anzi. Non è novità che l’agricoltura barcolli sotto il peso delle multinazionali che stabiliscono il prezzo a discapito del lavoro. Non è novità il generale e diffuso sentimento di razzismo che colpisce diversi strati della società. Ora addirittura più prepotente, forte dei social dietro i quali si nasconde anche la gente che si dice perbene, quella che Fabrizio De Andrè avrebbe cantato nei versi de ‘La città vecchia’ dedicati al “Vecchio professore”. Gli immigrati africani, la ‘gente perbene’, li chiamano “scimpanzé abbronzati” dando largo spazio all’ignoranza mista a frustrazione.
Una novità però c’è e riguarda quell’associazione trentennale che ad ottobre, molto probabilmente, chiuderà i battenti. Il presidente, Renato Natale che è anche il sindaco di Casal di Principe, lo ha annunciato a malincuore sabato pomeriggio, 19 giugno, ad Aversa, durante la prima tappa del Festival dell’Impegno Civile, mentre interveniva dal cortile di un bene confiscato ad Antonio Verde, camorrista di Giugliano. Una villa di tre piani, in ottime condizioni ma inutilizzata. “Sarò costretto ad annunciare la fine dell’associazione che fa parte di me e che mi ha accompagnato per tutto questo tempo. Quello che però – ha detto Natale- mi fa ancora più male è che dovrò consegnare le chiavi al Comune di Castel Volturno anche di Casa di Alice, il bene confiscato che abbiamo gestito nell’ottica di dare un presente prima di un futuro migliore alle donne vittima di tratta”. “Aiutatemi a non farlo”, ha chiesto Natale. E non si può fare a meno di pensare che la via della normalità è ancora lontana. Per un bene confiscato che si tenta di aprire ce ne è un altro che si spera di non chiudere.
Casa di Alice è un bene confiscato alla camorrista Pupetta Maresca a Castel Volturno, località Baia Verde. La Jerry Masslo, lo ebbe in gestione nel 2010 realizzandovi un osservatorio sul disagio sociale ed un laboratorio di sartoria sociale per dare lavoro, dignità ed autonomia alle vittime della tratta. A Casa di Alice è nato il progetto “Vestiamo la libertà”, un esempio di economia sociale antidoto dell’economia criminale. Con il marchio ‘Made In Castelvolturno’ il tentativo è di superare l’etichetta di droga e prostituzione, dando una nuova veste a questo territorio, l’Africa nella bellezza calda dei suoi colori trasformati e indossati con il design italiano. L’idea nata per volontà di Anna Cecere che per lunghi anni è stata animatrice e guida del gruppo, ha parlato fin dal primo momento di moda e integrazione. Le stoffe arrivano dalla Costa d’Avorio, Senegal, Nigeria, Tanzania e Kenia. I colori sono caldi ed intensi e raccontano una storia che va oltre i confini. Gonne, abiti, cappelli, ma anche grembiuli e borse. Il Made in Castel Volturno della sartoria sociale nata solo per restituire una seconda possibilità alla vita di donne trattate come merce di scambio, pare raccontare una storia che non appartiene a questa Italia, non in questo momento. La capo sarta Bose è morta l’anno scorso, insegnava alle altre sarte a cucire. Il sogno dovrebbe andare avanti, anche in sua memoria.
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