Assoluta maestra del narrare breve, Alice Munro, prima canadese a vincere il Nobel per la Letteratura nel 2013, morta oggi a 92 anni
Alice Munro nel suo racconto Bambinate scrisse che “i bambini attribuiscono al verbo odiare significati diversi. Può voler dire che hanno paura. Non che si sentano in pericolo di un’eventuale aggressione, quanto, piuttosto, di un sortilegio, una malevolenza. È una sensazione che, da molto piccoli, si può provare anche riguardo le facciate di certi edifici”.
Sono queste alcune delle parole più importanti dell’autrice canadese, vincitrice del Premio Nobel nel 2013, con le sue storie che partivano dalla vita quotidiana e finivano per scandagliare la profondità di quella interiore. Alice Munro ha dato il suo addio al mondo terreno il 14 maggio 2024, a 92 anni, dopo dieci anni di malattia neurodegenerativa.
Nata nel 1931 da una famiglia di allevatori di volpi e pollame che viveva fuori Wingham, in Ontario e che lottava per sopravvivere durante la Grande Depressione, Munro andò all’università con una borsa di studio e la frequentò per soli due anni prima di trasferirsi a Vancouver con il primo marito, James Munro, nel 1951.
Ben presto diventò, come lei stessa disse tempo dopo, “una casalinga di serie b”, madre di tre figli, che nonostante si fosse vista pubblicare la sua prima storia The Dimensions of a Shadow nel 1950 quando era ancora una studentessa, si vide costretta a rinunciare alle sua ambizioni. Almeno per un po’, perché per vincere una profonda depressione che l’aveva colta appena trentenne, Munro iniziò a scrivere ogni volta che le sue figlie dormivano.
Da Observer, nel 2005, raccontò di come non avesse mai particolarmente sognato d’essere madre e tantomeno casalinga: “Ho trovato difficile essere giovane. Quando mi sposai, quando avevo vent’anni, odiavo essere considerata ‘la piccola moglie’. Mi ci sono trovata che non avevo mai nemmeno firmato un assegno. Ho dovuto chiedere per anni soldi a mio marito persino per fare la spesa”
“Quando la mia figlia maggiore aveva circa due anni – ha raccontato a The Paris Review – veniva alla macchina da scrivere e io la respingevo con una mano e scrivevo con l’altra […] è stato brutto, perché l’ha resa l’avversaria di ciò che era più importante per me. Sento di aver fatto tutto al contrario: sono stata una scrittrice totalmente motivata nel momento in cui i bambini erano piccoli e avevano un disperato bisogno di me. E ora, che non hanno più bisogno di me, li amo così tanto”.
Quando aveva il tempo di scrivere, raccontava allora 75enne, “non riuscivo a finire una frase. Ho avuto attacchi di ansia. In parte era un modo per personificare la situazione, perché non riuscivo a respirare. Ero circondata da persone e da doveri. Ero una casalinga ed ero la madre di tre bambini e venivo giudicata per come interpretavo quei ruoli”.
La svolta arrivò quando smise di preoccuparsi del grande romanzo, che non riuscì mai a scrivere, diventando, tuttavia, la migliore al mondo nel genere del racconto breve, e iniziò a lavorare in libreria: “Il lavoro nel negozio – spiegava sempre all’Observer – mi ha fatto sentire come se avessi svolto una funzione nel mondo reale. Essere in quel mondo fatto solo di casa e di bambini aveva logorato la fiducia in me stessa”.
Quando fu pubblicata la sua prima raccolta, nascose le sue sei copie nell’armadio al piano di sotto dove “mettevamo tutte le cose che non usavamo molto spesso”. Non era vergogna, spiega, “ma orrore per l’esposizione”. Una settimana dopo, quando era sola in casa, si costrinse a leggere uno dei racconti. “E, sì, era OK”.
I racconti di Munro iniziarono a essere pubblicati su riviste come Tamarack Review, Montrealer e Canadian Forum, raccogliendone gradualmente abbastanza per una raccolta apparsa nel 1968.
Acclamato dal New York Times come prova che il racconto era “vivo e vegeto Canada”, Dance of the Happy Shades (La danza delle ombre felici, in italiano) è stato elogiato per la “strategia rinfrescante” di Munro nel fornire più domande che risposte.
Munro iniziò di nuovo a concentrarsi sulla scrittura di un romanzo ma si trovò in difficoltà perché, come ammise in seguito , “non aveva vita. Non aveva punch. Qualcosa in esso era flaccido”.
Così lo divise in una raccolta di storie collegate, La vita delle ragazze e delle donne, che fu pubblicata nel 1971, nella quale volge lo sguardo sulle vite “noiose, semplici, sorprendenti, insondabili” che vedeva intorno a sé.
Gli anni ’70 furono un decennio di trasformazione per Munro: tornò a Wingham dopo la fine del suo primo matrimonio nel 1973, si risposò nel 1976 e pubblicò il suo primo racconto sul New Yorker nel 1977 – Royal Beatings, una storia basata sulle punizioni aveva ricevuto da suo padre da bambina. Nonostante ripetuti tentativi, il romanzo non arrivò mai. “Tra ogni libro”, ha detto, “pensavo, ‘beh, ora è il momento di passare alle cose serie’… Non ha mai funzionato.”
La sua ricerca dell’autenticità ha trasformato Munro in un cronista senza eguali della politica sessuale, dell’innamoramento, dell’inganno e del desiderio.
Per Margaret Atwood, “pochi scrittori hanno esplorato tali processi in modo più approfondito e spietato” di Munro: “Mani, sedie, sguardi – fanno tutti parte di un’intricata mappa interiore disseminata di filo spinato e trappole esplosive, e percorsi segreti attraverso i cespugli”.
Sempre Atwood una volta la definì “tra le maggiori scrittrici di narrativa inglese del nostro tempo”. Salman Rushdie l’ha elogiata come “una maestra della forma” mentre Jonathan Franzen una volta scrisse : “[Munro] è uno dei pochi scrittori, alcuni vivi, la maggior parte morti, a cui penso quando dico che la narrativa è la mia religione“.
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